Si fa presto a dire: "Auto-coscienza"

di Piero Priorini

Gustav Jung; e se anche, durante l’esercizio oramai quasi trentennale della mia professione, ho amoreggiato con la bioenergetica di A.Lowen, la logoterapia di V.Frankl, la psicologia transazionale di P.Watzlawick e infine con l’ipnosi di F.Granone e di M.Herickson , non ho mai smesso per un solo istante di essere grato a Jung per l’opera formatrice del suo pensiero. Devo a lui tutta la mia spregiudicatezza intellettuale e, quale che esso sia, il grado di libertà interiore che ho raggiunto.
Eppure, ricordo che fin dai primi tempi, una sua affermazione – trovata in un testo, non so più quale - mi sembrò davvero singolare… per non dire probabilmente errata.
“Che si possa distinguere tra coscienza e autocoscienza – sosteneva grosso modo Jung, che cito a memoria e alla buona – mi pare una questione di lana caprina. Un sottigliezza forse elegante, ma della cui utilità è lecito dubitare.”
 - Possibile? – Mi chiesi allora, giovane terapeuta.
E ancora oggi, con l’esperienza di tanti anni, mi chiedo: “Possibile? Possibile che Jung sia stato così cieco, o almeno così superficiale, da non riconoscere l’abisso che ha sempre separato la coscienza dall’autocoscienza? E i problemi che questa distanza comporta?”
Ma allora, vediamo un pò: cosa si può intendere per coscienza? Direi la capacità di prendere atto del mondo esterno e/o di quello interno, propria della maggior parte degli esseri viventi. E se anche non sappiamo nulla di certo sull’esistenza di una tale facoltà nelle piante, di certo la condividiamo con quasi tutti gli animali. Anzi, si potrebbe affermare che l’ampiezza della coscienza cresca, man mano che saliamo lungo la scala evolutiva delle specie, fino a raggiungere il più raffinato livello appunto nell’homo sapiens. Che osserva il mondo e ne prende atto, che collega i fatti e scopre le leggi che li determinano, che ascolta se stesso e si sente pervaso da mille impulsi, sensazioni, emozioni e sentimenti; e si scopre soggetto pensante, senziente e volitivo, protagonista più o meno assoluto della propria esistenza. Insomma: che è cosciente di essere cosciente.
Ma anche questa forma di consapevolezza non realizza ancora una vera e propria autocoscienza. Piuttosto è solo la soglia di demarcazione tra le due.
Certo… una bella differenza separa l’essere umano dal più intelligente tra i primati… ma, ad osservare bene… spesso è una differenza più quantitativa che qualitativa. Come osò affermare una volta Goethe, c’è più distanza tra l’anima di un tormentato filosofo e quella di un semplice contadino, che tra l’anima di questo stesso contadino e quella di un animale particolarmente intelligente, come ad esempio i gorilla del Borneo. E sia chiaro che l’affermazione di Goethe non conteneva nessuna discriminazione sociale né, tanto meno, alcun giudizio di valore etico… e che, soprattutto ai nostri giorni, potrebbe essere tranquillamente ribaltata. Conosco di persona dei così detti “uomini istruiti” per i quali la coscienza di un gorilla potrebbe essere addirittura invidiabile.
Ma a parte tali eccezioni, quello che credo volesse sostenere Goethe è appunto la non interscambiabilità dei termini di “coscienza” e “autocoscienza” e la mancanza di gratuità e semplicità nel passaggio dall’una all’altra. Un conto infatti è arrivare ad osservare il mondo esterno e a scoprire le sue leggi, e un altro conto, invece, è quello di arrivare ad indagare il nesso che unisce tale attività indagante con la realtà che viene indagata; un conto è sapere di sé, dei propri pensieri, dei propri sentimenti e dei propri impulsi, e un ben altro conto è arrivare a conoscere dove, come, quando e perché tali pensieri, sentimenti e impulsi si siano formati.
Come già altri autori prima di me hanno immaginato, si potrebbe pensare alla coscienza come ad un piano orizzontale, estendibile all’infinito; mentre all’autocoscienza come ad un piano verticale, anch’esso altrettanto estendibile. Ma con un “alto” e un “basso” che avrebbero una ben altra valenza dell’estendibilità a destra o a sinistra, avanti o indietro del piano orizzontale.
Ma se la metafora può sembrare chiara e significativa alla maggior parte delle persone, non altrettanto si può dire della differenza tra coscienza e autocoscienza, e non c’è forse nient’altro di così comune e frustrante che imbattersi in uomini e donne che confondono le due cose e, giustificati dalla propria confusione, si illudano – solo perché sono coscienti – di essere invece autocoscienti.
Credo di poter dire che qualunque psicoterapeuta si scontra giornalmente con queste situazioni, perché se è vero che molti pazienti arrivano con la richiesta di diventare appunto più autocoscienti (e in genere sono quelli che una certa autocoscienza già ce l’hanno), molti altri neanche sospettano di muoversi solo sul piano orizzontale della propria coscienza ordinaria e di essere addirittura ignari della possibile esistenza di altre dimensioni.
Queste situazioni in genere sono esasperanti, ma non è colpa di nessuno: solo dell’estrema difficoltà di individuare la differenza tra i due piani, nonché degli infiniti rischi che si corrono non appena si abbandona il piano della coscienza orizzontale per penetrare in quello della verticalità.
Perché il processo auto-conoscitivo è difficile e, soprattutto, non verificabile. Inficiato dalla presenza di tutti quegli elementi emotivi e impulsivi inconsci che condizionano, distorcono e ottenebrano la coscienza e che sono appunto quelli che si vorrebbero svelare.
Quello auto-conoscitivo è un processo lento, delicato, complicatissimo e pressoché infinito. Che esige una spregiudicatezza senza pari, una impeccabilità quasi sovrumana e un coraggio da leoni. Un processo mai lineare ma che procede invece per strade tortuose, che si realizza per tentativi ed errori e che, con pazienza, ricomincia sempre da capo. Tornando a esaminare i paradigmi da cui ha preso l’avvio, a verificare ciò che è stato già mille altre volte verificato, e non abbandonando mai, neppure per un solo istante, l’arma più potente che ha a disposizione: quella del dubbio.
All’inizio, quando si abbandona il piano orizzontale per portarsi su quello verticale, si ha la sensazione di perdersi in un vuoto cosmico originario: senza più alcun punto fermo su cui poggiare, senza più teorie su cui fare affidamento, senza più norme, valori, codici o leggi che possano confortare. La coscienza è sola con se stessa e dal profondo emergono i fantasmi (bisogni, impulsi, paure, condizionamenti, ecc…) che cercheranno di irretirla ed ingannarla; perché la vogliono quieta, solo apparentemente desta, limitata al piano orizzontale e, in sostanza, non libera.
Perché la libertà, per quanto paradossale la cosa possa apparire… la libertà fa paura.
Il passaggio dal piano orizzontale a quello verticale è il momento più pericoloso. Non solo per la presenza dei fantasmi interni ma anche per tutte quelle influenze esterne che, appunto in questo momento delicato, possono vampirizzarla.
Perché il plagio - giustamente depennato dal codice penale, per l’impossibilità di essere definito e differenziato da ciò che invece non lo configura - in realtà esiste ed è molto più diffuso di quanto si possa immaginare. Il plagio delle coscienze è un fenomeno costante, oserei dire quasi fisiologico all’interno del processo evolutivo della coscienza umana, la quale appunto si evolve e si emancipa passando da una condizione di suggestione ad un'altra. Da uno stato di plagio provvisorio ad un altro. Fino a che, all’interno di questo iter dinamico, alla fine si auto-determina.
Si potrebbe infatti affermare che qualunque processo scolastico o educativo si realizza attraverso delle forme più o meno blande di plagio… e portando queste considerazioni alle loro estreme conseguenze, si potrebbe arrivare a sostenere che lo stesso processo psicoterapico è un plagio; e che, anzi, è tanto più efficace quanto più totale ed assoluto. L’essenziale sarebbe che, alla fine del processo, il terapeuta riconsegni - per così dire - la coscienza plagiata, ma anche rinforzata, al suo legittimo proprietario e lasci l’io del paziente libero di tornare ad esprimersi all’interno di essa.
Il plagio dunque esiste ed è pericoloso solo se e quando è abusato e strumentalizzato da colui che lo ha indotto per la realizzazione dei propri interessi privati (materiali o spirituali); solo se e quando - non riconosciuto come tale dalla coscienza che lo subisce - la fissa in un sistema concettuale rigido e in se conchiuso.
I motivi per cui ciò si verifica sono i più vari, ma di sicuro non implica nessuna mancanza o deficit dell’intelligenza; come afferma Dietrich Bonhoeffer:
“[…] si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto ma l’umanità di una persona. E’ una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini: un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni. Osservando meglio si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, scientifica, politica o religiosa che sia, provoca l’ottundimento della coscienza di gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede l’ottusità degli altri. […] Sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione della potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano.” (Resistenza e resa. Ed. Paoline 1988)
Volendo essere più analitici si potrebbe affermare che questo si verifica ogni volta che – a livello individuale o di massa – sia mancante, o comunque fortemente lesa, appunto la coscienza del sé: lo smarrimento che questa insicurezza emotiva comporta è tale, infatti, da necessitare una qualsivoglia strategia di difesa e di compensazione. E, fra le tante a disposizione dell’anima, la più pericolosa è sicuramente quella che prevede l’identificazione con la teoria scientifica, politica o religiosa di colui che con più forza la ostenta. In sostanza è una identificazione con l’Uomo di Potere, che sarà tanto più interiorizzato quanto più istrione, narciso, arrogante, violento e indiscusso egli saprà porsi.
L’identificazione con l’uomo potente dona infatti a molte anime ferite un apparente senso di potenza e di appartenenza: esse si sentono riconosciute, amate e dunque rassicurate nel contesto collettivo del quale sono entrate a far parte, e in più godono per estensione della forza ostentata dal loro leder. Se Lui è potente, affermato e sicuro di sé, allora - per estensione - anche loro lo sono. O, almeno, sentono e credono di essere.
L’identificazione del tifoso con la propria squadra di calcio, del militante politico con la propria ideologia, dell’allievo con la teoria del proprio maestro, del discepolo con il cammino spirituale del proprio guru, da un punto di vista fenomenico sono tutte sullo stesso piano: in ogni caso la squadra di calcio, la teoria scientifica, l’ideologia politica o la pratica spirituale non si discutono; piuttosto si amano! E dietro di esse va amato l’uomo che per antonomasia le rappresenta.
E, infatti, con la coscienza plagiata in genere è impossibile relazionarsi fuori dal contesto nel quale quest’ultima si riconosce: perché i fatti vengono negati, le prove distorte e qualunque autentico dialogo sostanzialmente eluso. Dall’esterno, purtroppo, non v’è alcuna possibilità di risvegliarla; l’unica speranza è un atto di liberazione interiore autonomo. Un atto raro e difficile, perché per realizzarsi necessiterebbe l’accettazione e il superamento di quella profonda solitudine ontologica dalla quale appunto l’anima già una volta è fuggita attraverso la rinuncia della propria assoluta e irripetibile unicità.

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aggiornata il 14-02-2013

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