Storia della mia formazione
Professionale e culturale
(Estratto dal VI° capitolo del nuovo libro in preparazione AfricAzonzo)

di Piero Priorini

Avevo 16 anni e frequentavo, a Roma, il liceo scientifico Guido Castelnuovo. Ancora non sapevo bene cosa avrei fatto da grande: forse il pilota di aeroplani (come io sognavo)… forse il commercialista (come avrebbe voluto mio padre)… forse il giornalista (come avrebbero voluto i miei insegnanti). Poi un giorno, all’improvviso, incontrai la Morte mentre rapiva a sé un ragazzino che abitava nell’appartamento sottostante a quello dove io vivevo. E la mia coscienza bambina, di fronte all’impossibilità di comprendere, partorì un progetto tanto ingenuo quanto titanico: sarei diventato psicanalista e avrei portato la “luce” nel “buio”.
Intanto continuai il cammino delle superiori, forzato con molta discrezione da mio padre (che aveva un grosso studio privato come commercialista e fiscalista) a considerare comunque la via della tradizione professionale familiare. O almeno la laurea in giurisprudenza.
Come che sia, si potrebbe dire che il mio “viaggio” sia iniziato nel 1968. Avevo 19 anni e, come la maggior parte dei miei amici, ero comunista e ovviamente ateo. Già allora non occorreva una grande forza né chissà quale grande esperienza per demolire e fare a pezzi la superficiale rivestitura religiosa della nostra cultura: le menzogne, le contraddizioni, le ipocrisie, l’immoralità, le colpe vergognose e indicibili di cui il cattolicesimo si è sempre ricoperto erano talmente evidenti ed esposte agli occhi del mondo che solo l’inerzia intellettuale o la vigliaccheria emotiva propria del perbenismo borghese poteva impedire di vedere e di condannare. Il ’68, prima di degenerare in delirio politico, fu un momento magico per le coscienze: una sorta di capodanno in cui tutti erano invitati a buttare dalla finestra ciò che di vecchio e di stantio ingombrava l’anima e, divenuti così più leggeri, a lanciarsi verso nuove avventure.
La facoltà di giurisprudenza, a cui alla fine mi ero segnato più per una sorta di indeterminatezza interiore che per autentica convinzione, mi stava stretta. La voglia di tentare la via della psicanalisi si faceva sempre più forte perciò, in attesa di trovare il terapeuta giusto a cui affidarmi, grazie ad una anomala libertà di movimento degli studenti, creatasi a ridosso di quegli anni, pur rimanendo iscritto a giurisprudenza iniziai a frequentare altre facoltà e a dare esami a medicina, a lettere e a filosofia. Fu una vera e propria breve follia collettiva che a me, comunque, tornò molto utile.
Conobbi così il professor Tullio Tentori(1) e l’antropologia culturale. Mi appassionai alle sue lezioni e il mondo, da piccolo e ristretto che era, mi si aprì letteralmente sotto gli occhi. Appresi che non aveva senso alcuno interpretare le altre culture esistenti usando come parametri di misurazione quelli della propria, quasi questa ultima fosse in possesso della verità ultima del mondo. Quasi essa fosse l’unica giusta, quella luminosa ed oggettiva; l’apice dello sviluppo e del progresso umani. Appresi che esistevano molte, tante “Altre Realtà”, alle quali però – dato l’abisso incommensurabile della mia ignoranza e l’età giovanile – non potevo che dare il valore di “Altre Interpretazioni” possibili di una Realtà Sottostante.
Come rottura con la visione ingenua dell’uomo della strada non era ancora un gran che, ma era pur sempre un primo passo. La lettura di alcuni testi di linguistica radicalizzarono tuttavia queste mie prime scoperte, insegnandomi la dipendenza strettissima tra il nostro modo di vedere la realtà del mondo e il patrimonio linguistico della società in seno alla quale nasciamo. Gli Inuit groellandesi, tanto per fare un esempio, la cui vita dipende in massima parte da un ambiente costituito di neve e ghiaccio, posseggono otto vocaboli differenti per designare diverse condizioni di questi elementi e il risultato è che essi “vedono” (nel senso che percepiscono con gli occhi) otto tipi di neve e ghiaccio diversi là dove nessuno di noi, abitanti dei paesi temperati, potrebbe andare oltre i tre o quattro tipi. Allo stesso modo i Tuareg “vedono” il Sahara caratterizzato da consistenze diverse, là dove uno qualsiasi di noi occidentali vede un’unica distesa di sabbia soffice e polverosa.
L’esistenza di Diverse Realtà possibili – ripeto, sempre intese come diverse interpretazioni della realtà sottostante – eccitò la mia fantasia al punto da farmi richiedere al professor Tentori una tesi di laurea che avrebbe dovuto intitolarsi: “La Realtà della Realtà”. Solo oggi posso capire quanta pazienza dovette avere il professore con il suo ingenuo studente. In primo luogo mi rivelò che era appena uscito un importante testo di uno psicanalista ricercatore, Paul Watzlawick, e che questo testo si intitolava esattamente come io avrei voluto titolare la mia tesi. In secondo luogo mi spiegò che, data comunque la mia iscrizione alla facoltà di giurisprudenza, non gli sembrava molto corretto che io volessi laurearmi alla facoltà di lettere con una tesi in antropologia.
Ovviamente aveva ragione lui, anche se allora lo maledissi accompagnando le mie argomentazioni con tutti gli improperi che conoscevo. Ma è importante per me ricordare come, fin dai primi passi mossi alla ricerca di una visione unitaria del mondo e della vita, il mio interesse fosse indirizzato a scoprire la natura ultima della realtà.
Intanto ero uscito dalle mie indecisioni ed ero entrato in training psicanalitico. La cosa strana, semmai, fu che nonostante la mia dichiarata propensione per la psicanalisi freudiana, nessuno dei tanti analisti da me incontrati seppe conquistarsi la mia fiducia. L’unico che vi riuscì fu uno junghiano e ancora oggi non credo che potrò mai ripagare la vita (il destino, la fortuna o il caso) dell’occasione che allora volle concedermi. Ci misi infatti pochissimo per accorgermi quale più ampia visione implicasse la psicologia del profondo, quale maggiore libertà e spregiudicatezza di pensiero. Da allora, e sono passati più di 40 anni, ho “amoreggiato” con eccellenti altre diverse teorie - la bioenergetica di Wilhelm Reich e Alexander Lowen, la psicosintesi di Roberto Assagioli, la transazionale di Eric Berne e la terapia strategica breve di Paul Watzlawick (proprio lui) e Giorgio Nardone - ho conseguito diverse specializzazioni, tra le quali una (che resterà sempre quella a me più cara per le sue implicazioni conoscitive) in ipnosi clinica. Ma nulla è riuscito ad intaccare la mia convinzione che la psicologia del profondo di C.G.Jung possa tutt’ora essere considerata la più lucida e moderna visione possibile sulla natura metapsichica dei fenomeni mentali umani.
Quando incontrai il mio terapeuta avevo 22 anni. Nonostante fossi già sposato e avessi una figlia, in pratica mi chiusi in una sorta di monachesimo interiore e per più di dieci anni lo studio fu l’unico mio motivo di interesse. Quando non studiavo, leggevo.
Accaddero tre cose: la prima fu che mi scrollai di dosso quel poco di ideologia di sinistra che aveva contaminato le mie imprese studentesche. La psicologia mi aiutò a comprendere quanto poco “il privato fosse solo politica” (come sostenevano allora tutti i miei compagni) e quanto invece fosse “la politica ad essere solo un privato”, spesso mal risolto. I Nuovi Filosofi come Bernard-Henri Levy(2) e André Glucksmann(3), paradossalmente provenienti dal “maggio francese”; e alcuni autori italiani come Ignazio Silone(4) e Fausto Gianfranceschi&sup(5); mi aiutarono a riconoscere le contraddizioni dialettiche e le spudorate menzogne che hanno sempre caratterizzato l’ossatura portante dell’ideologia di sinistra. Aleksandr Solzenicyn(6), Andrei Sakharov(7), Vladimir Maksimov(8) e Vladimir Bukovskij(9) mi mostrarono i suoi efferati crimini. La semplice osservazione del mondo mi svelò l’erroneità di una politica economica i cui presupposti antropologici erano, e sempre saranno, del tutto infondati. In pratica si trattava di una “religione” mascherata da pensiero razionale, di una utopia escatologica materialistica che traeva spunto dalle miserie del mondo per incantare i cuori delle persone più buone e i cervelli di quelle che non sapevano opporsi al primato della intelligenza vantato dai suoi vicari.
Ancora oggi, dopo 35 anni di psicanalisi, posso dire che due tipologie di pazienti trovo disarmanti: i cattolici e gli intellettuali di sinistra. Pur nei limiti di tutte le generalizzazioni, spesso entrambe queste categorie di persone sono rigide, dogmatiche, bigotte, arroganti e presuntuose. Incapaci di dialogare con l’Altro perché la propria “religione” è per essi un motivo di identità e non di curiosità conoscitiva né tanto meno di dialogo. Suppongo tuttavia che la stessa cosa valga per i musulmani e gli ebrei. E chissà per quanti altri. Sempre, tuttavia, ogni qualvolta il credo di un uomo è così debole al livello noetico da necessitare il supporto della propria identità per essere sostenuto. L’Altro allora, con le sue idee diverse e contrarie, deve essere distrutto, eliminato, rimosso dalla coscienza prima possibile, perché con la sua sola presenza mina il supporto della propria identità.
La seconda cosa che accadde in quel periodo fu l’incontro con il pensiero orientale. Jung ci si era confrontato a lungo e numerosi erano gli autori che avevano accettato il dialogo con lui. Sentii che non potevo e non volevo esimermi dal fare altrettanto. Lessi e studiai così Daisetz Teitaro Suzuki(10), Sri Aurobindo(11), Paramahansa Yogananda(12), Lao Tze(13) e lo stesso Ramana Maharshi(14). Voglio però precisare che mai, in nessun momento della mia vita, mi sono sentito attratto dall’induismo, dal buddismo o dal taoismo. Piuttosto, quello che mi colpì, fu la possibilità di un altro tipo di pensiero, non necessariamente basato sui presupposti aristotelici che caratterizzano il nostro modo occidentale di pensare, bensì su altri, ma non per questo necessariamente errati. Non è questo il luogo per dilungarmi su una questione così complessa ma, tanto per fare un esempio, scoprii che il nesso temporale tipicamente occidentale, secondo cui c’è sempre una causa prima di ogni effetto, in oriente poteva essere capovolto: onde per cui gli effetti, a volte, erano riconosciuti precedere la causa e, in un certo senso, causarla. Come se la “chiamassero in essere” per realizzare se stessi.
Sempre in quegli anni, motivato dal mio terapeuta, lessi “La logica contro l’uomo” di Massimo Scaligero(15). Ne venni folgorato. Ebbi in seguito il privilegio di conoscere personalmente questo formidabile pensatore e di essere accolto ai suoi cenacoli. In poco tempo la mia “attività pensante” subì un radicale, drastico cambiamento di cui per tutta la vita avrei conservato gli effetti.
Ero affascinato: il mondo – come ho già detto - mi si apriva davanti e, in barba alla sicumera del materialismo scientifico, che parlava come se tutto fosse oramai stato scoperto e come se, da allora in poi, solo l’evoluzione tecnologica avrebbe avuto un futuro, l’ignoto mi afferrò, come una vertigine. La natura ultima della realtà era un terreno ancora inesplorato, il mistero della nostra esistenza non ancora svelato, il futuro era ancora tutto da scrivere. La vita intellettuale poteva ancora essere un’avventura.
La terza cosa, forse la più importante per lo sviluppo del mio pensiero, accadde invece per caso. Erano gli anni in cui leggevo i russi: Lev Tolstoj, Fedor Dostoevskij, Vladimir Solov’ev, Michail Bulgakov, e tanti altri. Non ricordo più né come né perché, ma un giorno mi ritrovai tra le mani un libro del filosofo contemporaneo Nikolaj Berdjaief e, leggendolo, io che non potevo certo vantare alcun rigore filosofico, mi imbattei in una frase che mi colpì come una mannaia: “Come è possibile – si chiedeva l’autore, esterrefatto – che nessuno fino ad ora si sia accorto di quanto è soggettivo tutto ciò che riteniamo oggettivo, e che l’unica, vera oggettività è invece la nostra soggettività?(16)
Barcollai sotto l’urto di quel pensiero. Non possedevo ancora le conoscenze, gli strumenti e soprattutto la maturità per appropriarmene fino in fondo. Ma in un qualche modo intuii che avevo incontrato un pensiero elegante e straordinario che, un giorno, avrebbe potuto essermi utile. Di fatto, da allora, quel pensiero non ha mai più abbandonato la mia anima. È solo cresciuto, a dismisura, avendo trovato di che alimentarsi.
Intanto era nato il mio secondo figlio, io avevo compiuto 33 anni, ero uscito dal monachesimo nel quale mi ero rinchiuso e avevo iniziato a lavorare come psicanalista junghiano. Il contatto con la vita intima e segreta delle persone comportò subito delle sorprese: bastava infatti ascoltare con attenzione e partecipazione per essere scelti come testimoni – da persone assolutamente sane di mente - di fenomeni ben difficilmente riducibili nei canoni classici della scienza materialistica: lampi di intuizioni pre-cognitive, sogni prospettici e, soprattutto, una notevole quantità di eventi sincronici. Jung e i suoi allievi avevano dedicato molto tempo della loro ricerca allo studio di questi fenomeni attraverso i quali, ciò che si manifesta, sembra essere una sorta di risonanza tra psiche e mondo. La tradizione orientale era piena di osservazioni analoghe, come testimonia, ad esempio, il celebre aforisma zen: “Quando l’allievo è pronto, il maestro arriva!”. O quell’altro aforisma vedico – a me tanto caro da averlo usato come intestazione del mio sito Internet - “Ognuno, nella vita, incontra sempre e soltanto se stesso.” Ma il pensiero occidentale, indissolubilmente legato ai distinguo e alle contrapposizioni, nonostante la quantità e l’evidenza degli eventi sincronici, aveva difficoltà a comprenderli e a giustificarli. Eric Neumann(17), uno degli allievi più brillanti di Jung, aveva invero tentato una sintesi teorica del fenomeno che risultava però, a mio giudizio, astratta e farraginosa. Più interessanti invece i tentativi fatti dallo stesso Jung e dal premio nobel per la fisica Wolfang Pauli, i quali – su basi teoriche e sperimentali - iniziarono a parlare di una possibile dimensione ove coincidessero realtà interna e realtà esterna, psiche e mondo, pensiero e materia. Era la prima volta che entravo in contatto con la fisica e la meccanica quantistica: non avevo gli strumenti necessari per comprendere appieno le implicazioni di Pauli né, forse, le capacità. Intuii tuttavia che quella sarebbe stata una strada feconda per le mie personali ricerche sulla natura ultima della realtà. Così, per imparare a padroneggiare meglio l’ostica materia, presi ad interessarmi ai lavori divulgativi di Fritjof Capra(18). Il suo celebre libro, “Il Tao della fisica”, arrivò per me come il maestro giusto nel momento in cui l’allievo è pronto. In un certo senso fu un altro shock intellettuale attraverso il quale mi si rivelò la possibile sovrapposizione della visione del mondo propria della filosofia orientale con gli ultimi risultati della ricerca scientifica occidentale. Fondamentale, in oltre, fu l’individuazione dei parametri culturali - patriarcali e maschilisti - propri della scienza occidentale newtoniana, a dimostrazione della sua assoluta relatività soggettiva. Il piedistallo, su cui era stato fissato l’idolo della scienza esatta ed oggettiva che nessuno mai avrebbe dovuto mettere in discussione, iniziò a traballare vistosamente. Dentro di me risuonavano ancora, possenti, le parole di Nikolaj Berdjaev: “Nulla è più soggettivo di ciò che crediamo oggettivo. L’unica autentica oggettività è proprio la soggettività…” ma non avevo ancora le nozioni sufficienti e la forza d’animo necessaria per comprenderne a pieno il significato.
Fritjof Capra prima, e i fisici Vandana Shiva, Jean Charon e lo stesso Antonino Zichichi poi, con i loro innovativi e coraggiosi lavori, mi aprirono il cammino facilitando il mio orientamento.
Siamo intanto arrivati agli anni ‘80. In Italia, tra mille pareri contrastanti e forti interessi economici, si profilava la costituzione dell’Albo degli Psicoterapeuti. Nonostante io mi fossi formato attraverso il regolare training analitico di una scuola junghiana accreditata, avessi dei lavori pubblicati su alcune riviste scientifiche ed esercitassi già da qualche anno, essendo laureato in giurisprudenza, non ero così sicuro di poter ottenere il riconoscimento retroattivo della mia formazione psicanalitica nel momento in cui l’Albo fosse divenuto attivo e obbligatorio. Studiare mi piaceva, e dunque perché non prendermi una seconda laurea che mi avrebbe posto al riparo da qualunque rischio? Detto fatto. Molti esami – per me, che da più di dieci anni mi muovevo nell’ambiente – furono un proforma. Altri noiosi ed inutili. Altri ancora – come ho già scritto nella prima parte di questo libro – illuminanti, come appunto quelli sulla psicologia dell’età evolutiva e, sorprendentemente, quelli sulle funzioni cerebrali. In particolar modo quelli sulla percezione e sulla rappresentazione a cui volli affiancare le mie eretiche ricerche sul “pensare” (inteso però come pensiero pensante e non come pensiero pensato).
Chiunque osserva l’ambiente circostante è assolutamente certo del fatto che lì, fuori di lui, si distende la realtà ultima del mondo che i suoi sensi, a meno che non siano lesi o malati, percepiscono oggettivamente. Perciò chiunque può dire: “questo è un tavolo!” perché i suoi occhi lo vedono, le sue mani lo toccano e le sue orecchie potrebbero coglierne le risonanze se qualcuno lo colpisse sufficientemente forte con un oggetto contundente. Un tavolo del quale, forse, potrebbe anche cogliere l’odore con il proprio olfatto e il sapore con le proprie papille gustative. Questo è il tavolo, certo e sicuro come il terreno su cui tutti camminiamo.
Fin qui la visione ingenua, dell’uomo della strada. Ma le cose non stanno affatto così come sembra, e molti filosofi e scienziati si sono rotti il capo nel tentativo di comprendere il fenomeno. Oggi sappiamo che in verità noi non tocchiamo, non vediamo e non ascoltiamo nessun ente, perché gli atomi che costituiscono il mondo esterno, così come quelli che costituiscono il nostro corpo e i nostri organi di senso, sono “abitati” da immani forze di repulsione che impediscono loro di entrare in contatto con alcunché. Quello che registriamo è “soltanto” la pressione tra le due forze antagoniste e il loro diverso equilibrio. Le sensazioni (cioè i nudi dati sensori) si risolvono in scambi elettromagnetici e biochimici che si propagano all’interno dell’organismo, dei quali possiamo seguire le vicende fin nella corteccia cerebrale. Ma cosa accada a questo punto, per cui un insieme di impulsi bio-elettrici si trasformano in rappresentazione, a nessuno è dato sapere. Si verifica qui quello che viene comunemente chiamato: “il misterioso salto dal corpo alla mente.” Un salto che si realizza grazie ad una facoltà – quella del pensare – la cui maggiore caratteristica consiste nell’essere trascurato dal soggetto che lo attiva. Il soggetto pensante, infatti, dimentica il pensare mentre lo compie, perfino nello straordinario caso in cui decida di pensare il proprio pensare; non è infatti quasi mai possibile osservare il proprio pensare in attività. Eppure è solo tale attività a discriminare una sensazione dall’altra e ad elevare alcune di queste al rango di rappresentazione. Senza l’invisibile attività del pensare i tanti segnali che giungono alla nostra corteccia resterebbero muti e nessuno tra essi si eleverebbe al rango di “rappresentazione”.
Il nostro cervello, infatti, viene costantemente bombardato da milioni di segnali al minuto che, ovviamente, per il loro numero eccessivo, non possono essere tutti trattenuti. Dobbiamo fare una scelta: accoglierne quel tanto che possiamo e sacrificarne la maggior parte. Quelli che accogliamo edificano il nostro mondo conosciuto. Ma come avviene la discriminazione? È forse un processo casuale e arbitrario? Niente di tutto questo: il linguaggio che apprendiamo nascendo, le esperienze che facciamo crescendo, le conoscenze che acquisiamo, determinano e condizionano ciò che percepiamo. In pratica, per quanto paradossale ciò possa sembrare, percepiamo della realtà esterna solo ciò che siamo già preparati e pronti a conoscere ed è plausibile che resti fuori dalla nostra percezione una porzione immensa di realtà: quella appunto che non conosciamo.
Portare avanti queste considerazioni però, può essere molto pericoloso: gli scienziati hanno edificato un corpus di leggi e di principi basati sulla presunta oggettività della loro ricerca. Essi ambiscono molto a ricoprire il ruolo di osservatori esterni, imparziali, oggettivi, quasi fossero Dei che distaccati dal mondo che è oggetto delle loro osservazioni, possano misurarlo e pesarlo a loro piacimento. Per favorire questa presuntuosa ambizione, sempre nell’ambito della percezione del mondo è stata tracciata una netta linea di demarcazione: da una parte le sensazioni soggettive che, come tali, non avrebbero alcun valore scientifico (tali sono, ad esempio, la sensazione del rosso, o di un suono, o di un certo calore). Dall’altra le percezioni oggettive, legate appunto alla quantità o alla misura delle forze che determinano quelle sensazioni. Così, per continuare il nostro esempio, mentre la sensazione del rosso di un qualunque osservatore può dirsi soggettiva e, dunque, di scarso interesse, viceversa la misura della frequenza d’onda della luce responsabile del rosso sarebbe oggettiva e, come tale, da tutti verificabile.
Ora si tenga ben presente che – per quanto io non possa qui dilungarmi sull’argomento ed essere esaustivo - questa linea di demarcazione tra soggettivo ed oggettivo è la pietra angolare su cui si sostiene la visione materialistica del mondo. È su questo apparentemente inattaccabile presupposto epistemologico che lo scienziato si ritira dietro i suoi strumenti e – quasi fosse un Deus ex macchina sottratto alle vicende soggettive di tutti gli altri mortali – pesa e misura il mondo che osserva e che presume esistere, oggettivamente, al di fuori della sua presenza indagatrice.
Ebbene, mi sento di affermare, con tutta l’umiltà di cui mi sento capace, che nella storia della conoscenza umana mai errore fu tanto grave e così gravido di conseguenze. Perché questa radicale divisione tra dati soggettivi e oggettivi si sostiene su un errore tanto grossolano quanto per altro invisibile alla maggior parte delle coscienze. Perché chi mai potrebbe sostenere di essere uscito dalla comune percezione per misurare e pesare il mondo con strumenti esenti dalla propria soggettività? In altre parole, chi potrebbe sostenere di appropriarsi di un qualsivoglia dato esterno cogliendolo fuori da quegli stessi identici canali sensoriali che generano poi la percezione finale del rosso. La misura delle cose avviene infatti pur sempre all’interno degli organi sensori umani. Le vie nervose attraverso le quali prendiamo atto della quantificabilità del mondo sono le stesse identiche vie con le quali cogliamo la sua qualità, ed è soltanto una pia illusione quella di ritenersi in possesso di un dato davvero esente dalla propria soggettiva umana identità. L’illusione è suffragata dal fatto che, mentre se due persone si pongono di fronte ad una luce rossa, nessuno può sapere se la rappresentazione dell’uno sia identica a quella dell’altro, tutti invece possono concordare se un determinato macchinario rileva la frequenza d’onda di quella stessa luce. Come dire che la frequenza è il dato oggettivo, il rosso un epifenomeno soggettivo della coscienza. Si è edificata così, privando la Realtà delle sue qualità, la visione materialistica del mondo. La domanda inevasa è però questa: fermo restando l’innegabile “supporto” della quantificabilità nel conoscere il mondo, con quale processo ne prendiamo atto? Usciamo forse dai processi sensori ordinari per misurare le cose? E se la risposta è no, non conducono forse tutti quei processi a quel misterioso salto tra corpo e mente di cui prima abbiamo parlato? Non solo… anche i fenomeni percettivi di cui stiamo parlando non sono pur sempre indagati con la percezione, a riprova del fatto che a nessuno è dato uscire da se stesso e così raggiungere una condizione di asettica oggettività?
Il fatto è che non ce ne sarebbe bisogno, perché è il pensare, inteso come processo antecedente al pensato, che incontrando il dato sensorio edifica il mondo intorno a noi. È l’attività pensante che, non essendo in sé né oggettiva né soggettiva, incontrando il mondo lo edifica.
Devo all’opera di Rudolf Steiner(19) – e in particolar modo ai suoi: Le opere scientifiche di Goethe e Filosofia della libertà – l’approfondimento di questi temi e le tante notti insonni passate a veder modificarsi radicalmente, dentro di me, la visione del mondo con cui fino ad allora ero vissuto. Fu un’autentica rivoluzione interiore, al limite del delirio intellettuale, ma alla fine della quale le parole di N.Berdjaev – già prima menzionate - cominciarono ad acquisire una valenza mai prima sospettata e le tante realtà possibili del mondo smisero di essere Tante Interpretazioni Possibili di un’Unica Realtà Sottostante per divenire invece Tante Realtà Possibili create ed edificate dalle coscienze umane a partire da una matrice unica sulla cui natura ultima (forse spirituale) tutto era ancora da scoprire e di cui tanto la coscienza quanto la materia facevano parte.
Frattanto avevo conseguito la tanto sospirata seconda laurea in psicologia per scoprire, pochi mesi dopo la tesi, che il riconoscimento retroattivo della mia precedente formazione professionale e della attività terapeutica svolta negli anni precedenti mi sarebbe stato accordato in ogni caso. Dunque: fatica sprecata? Non direi proprio, visto i risultati personali che, con la scusa degli esami, avevo prodotto. L’inquietudine conoscitiva che fin da bambino mi aveva sempre tormentato sembrava finalmente cedere il passo alla fiducia che, perseverando, prima o poi, avrei rintracciato una mia verità. Negli anni successivi vissi perciò un po’ sugli allori, dedicandomi – nel tempo libero - ad una intensa attività fisico-sportiva. A ventisette anni avevo incontrato l’alpinismo e lo avevo praticato nelle poche pause che lo studio mi aveva concesso. Adesso era giunto il momento di approfittare della momentanea quiete conoscitiva raggiunta e soddisfare il mio intenso bisogno di movimento.

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Piero Priorini


In realtà non smisi mai del tutto di studiare, anche perché mi resi prestissimo conto che le attività estreme che praticavo potevano condurre verso la stessa meta. Attraverso esperienze dirette e non mediate dalla riflessione, questo è ovvio, ma comunque tali da continuare a forzare il limite tra mondo visibile e mondo invisibile.
Comunque, ad un certo punto, sentii che dovevo sforzarmi di comprendere meglio i misteri della meccanica quantistica se era vero, come era vero, che Jung e Pauli avevano collaborato per decenni alla ricerca di una teoria unitaria di mente e materia. Volli ricominciare dall’inizio e provai così a leggere Werner Heisemberg(20): gli aspetti propriamente matematici continuavano a sfuggirmi, ma ebbi modo di ammirare la straordinarietà del suo genio e del suo coraggio leggendo: Fisica e filosofia. Nel testo egli raccontava non solo lo stordimento, la destabilizzazione e il panico di tutti i ricercatori che insieme a lui avevano varcato le Colonne d’Ercole dei presupposti epistemologici fino ad allora ritenuti insuperabili e per varcare i quali, avvertiva sempre Heisemberg, occorreva raggiungere uno Stato Altro della coscienza ordinaria; ma si spingeva tanto in là da affermare – a pag. 86 della mia edizione – il primato della “forma” sulla “sostanza”.
C’era di che boccheggiare.
L’altro motivo di interesse, ovviamente, era rappresentato dai risultati ottenuti investigando la natura delle particelle sub-nucleari. Una natura ultima che poteva apparire corpuscolare o ondulatoria a seconda di come veniva diretta l’attenzione dell’osservatore. Le implicazioni del Principio di Indeterminazione, scoperto da Heisemberg, erano innumerevoli ma, almeno per me che ero un incompetente, la più significativa poteva essere considerata la definitiva demolizione dell’illusione di poter osservare e studiare il mondo da una presupposta estraneità. In pratica, la vecchia idea del distacco sublime dello scienziato dall’oggetto dei suoi studi, l’idea di un suo serafico non coinvolgimento, poteva essere buttata nella pattumiera. Scrive infatti Paul Davies(21) citando direttamente Niels Bhor – un altro dei grandi fisici protagonisti dell’eresia quantistica:
L’indistinto e nebuloso mondo dell’atomo prende corpo nella realtà concreta solo quando lo si osserva; in assenza dell’osservatore, l’atomo è un fantasma, ma si materializza solo quando lo si cerca.
Ero ovviamente consapevole, e lo sono tutt’ora, che non tutti i fisici ricercatori se la sono sentita di riconoscere al Principio di Indeterminazione questa valenza. Nutro tuttavia il sospetto che la maggior parte di loro rifiuti tali implicazioni sia per la difficoltà di trovare accesso ai diversi livelli di coscienza necessari per accettarli, sia per la paura di veder crollare tutte quelle rigide certezze materialistiche sulle quali essi hanno edificato la loro individualità.
Devo a questo punto aprire una triste parentesi al racconto di questo mio “viaggio conoscitivo” per aggiungere alla tipologia umana dei “poveri di spirito” che avevo creato – lo dichiaro apertamente - a mio esclusivo arbitrio, e che all’inizio accoglieva cattolici e intellettuali di sinistra, anche i devoti delle scienze esatte. Come tali alludo a individui più che intelligenti, spesso in possesso di una discreta cultura di base, ma la cui vita intellettuale è caratterizzata da una debolezza di fondo che impedisce loro di vivere nel dubbio. Quel sano dubbio che dovrebbe consentire a chiunque di rimettere in discussione le proprie idee per eventualmente confermarle, correggerle o modificarle radicalmente. Ma come per i cattolici o gli intellettuali di sinistra, anche per i seguaci della scienza esatta i propri convincimenti sono più un “motivo di identità” che non di comunicazione, perciò sono inattaccabili. A parole molti di loro si presentano aperti e disponibili, pronti ad accettare visioni anche contrarie ed opposte alle proprie, purché supportate da prove valide. Ma in pratica non ho mai incontrato nessuno disposto veramente a farlo. E se viene loro segnalato un determinato ricercatore, più che qualificato, che sostiene ipotesi contrarie… bhé quello, di sicuro, è un folle o un cretino! Se viene riferita una qualche notizia, ancorché provata… quella invece, senza ombra di dubbio, è una menzogna! E se viene presentato un qualche fenomeno più o meno anomalo… quello è evidentemente un falso. Il verdetto viene emesso con una sicurezza ed una immediatezza sconcertanti ed è privo di appello, nonostante la pregiudizialità evidente su cui si fonda.
Un esempio fra mille, scelto tra i più scabrosi: l’esistenza dei miracoli. Il fastidio e la rabbia provata dai fondamentalisti della scienza è comprensibilissimo. Perché l’ammissione anche soltanto di un solo così detto piccolissimo miracolo farebbe crollare a terra tutto il castello di sicurezze nelle quali essi hanno racchiuso la propria identità e, cosa ancor più grave, concederebbe ragione ai rappresentanti delle varie religioni. Per cui il fatto deve essere negato all’origine, screditando le prove e tutti coloro che si sono sforzati di raccoglierle.
Nessuno di questi puristi della ragione sembra rendersi conto che la relazione “evento miracoloso - confessione religiosa” non è così diretto come sembra (o viene fatto sembrare). L’evento in realtà si situa tra quelli ben conosciuti della somatizzazione isterica o dell’effetto placebo e la domanda interessante non è se l’evento si sia realizzato o meno, bensì “cosa” lo abbia fatto accadere e se ciò sia avvenuto stravolgendo o meno la gerarchia delle istanze psichiche. In altre parole se l’impulso è partito dal basso, cioè a dire dall’inconscio, perché allora si tratterebbe di un fatto isterico, o invece dall’io raccolto sulla propria fede, e allora si presenterebbe come un evento mistico. Ma anche ove si arrivasse a quest’ultima conclusione resterebbe ancora da appurare in base a quali leggi ciò sia potuto avvenire. Perché i miracoli non si realizzano, come molti amano presumere, attraverso uno stravolgimento delle leggi del nostro universo spazio-temporale bensì grazie ad una loro accurata attuazione. Nella quale però si amplifica la relazione esistente tra mente e materia che giace ancora sconosciuta nel profondo della nostra coscienza ordinaria.
Scrive il noto oncopneumologo Enzo Soresi(22) a proposito di un paziente affetto da tumore melanoma disseminato e mortale a breve termine che guarì dopo un incontro con madre Teresa di Calcutta:
Questo miracolo è interpretabile, dal punto di vista neurobiologico, come uno shock carismatico e la profonda ideologia religiosa del paziente è la base per spiegare l’evento atteso [così come si spiega un placebo] che scatena una liberazione di neuropeptidi.  Nel caso del melanoma si va a liberare una cascata di citochine (interluchina, interferon, immunoglobine), sostanze naturali prodotte dal nostro organismo e in grado di difenderci ed eliminare le cellule tumorali. Da anni la scienza ufficiale ricerca le proprietà antigeniche del melanoma per produrre una terapia con vaccino: ma. ahimé, dove la scienza ufficiale tuttora fallisce là può madre Teresa di Calcutta; ma la premessa assoluta per la guarigione è l’attesa dell’evento miracolistico.
Di fronte a tali affermazioni, tuttavia, i fondamentalisti delle scienze esatte arretrano inorriditi: per costoro, infatti, riconoscere l’esistenza di un fenomeno siffatto significherebbe concedere alla religione cattolica quel diritto all’esistenza che distruggerebbe le fondamenta su cui si basa la loro opposta e contraria visione del mondo. Pur nella loro brillante intelligenza sembra che questi puristi non riescano proprio a rendersi conto che i cosi detti miracoli si sono manifestati (e continuano a manifestarsi) in tutte le confessioni del mondo, passate, presenti e future, a dimostrazione del fatto che la fede di riferimento e la santità dei personaggi implicati sono solo la “veste esteriore” di una fenomenologia le cui radici rimandano alla relazione ancora tutta da investigare tra mente, materia e universo. Sembrano non riuscire a comprendere che la ricerca spirituale non ha nulla, ma assolutamente nulla a che fare con le varie confessioni religiose che circolano per il mondo, le quali potrebbero invece essere considerate, in tutta tranquillità, favole per la coscienza bambina della maggior parte degli uomini. Certo, favole che testimoniano la desolante condizione di infantilismo della maggior parte delle coscienze e da cui deriva l’immenso potere di coloro che le cavalcano, ma pur sempre favole che solo la conoscenza del Sacro, dell’autentica Sacralità che pervade l’universo, potrebbe far dismettere. Non certo l’irritazione isterica degli atei contestatori, né le loro sconsolanti, ridicole prove dell’inesistenza di Dio. Quest’ultime, infatti, anche quando sono il parto di brillanti e ben preparati ricercatori, non vanno mai oltre uno sterile elenco di prove logico-razionali tendenti a invalidare o la “lettera” dei testi sacri, la cui incoerenza logica è già sotto gli occhi di tutti, o la stessa loro “simbolica” interna, la cui ermeneutica tutto può essere meno che razionale-riduttiva.
Il risultato finale è che tali contrapposizioni dialettiche non dicono assolutamente nulla a tutti coloro che interpretano la vita usando i parametri della fede. In pratica è come se dei cinesi si ostinassero a convincere, parlando cantonese, degli arabi che parlassero solo arabo. Nella migliore delle ipotesi i cinesi finirebbero per parlare solo per se stessi e la stessa cosa farebbero gli arabi tra loro.
Di fatto, almeno allo stato attuale delle cose, non esiste nessuna prova ultima sulla natura materiale o spirituale dell’esperienza che, come uomini, stiamo conducendo nell’universo. Né credo ci sarà fin tanto che cuore e cervello, sentimento e intelletto, passione e razionalità non avranno trovato il modo di collaborare, appoggiandosi l’un l’altra per guardare insieme negli abissi del Sacro.
Di fatto gli idolatri della scienza esatta sono dogmatici, rigidi e bigotti né più né meno dei loro tanto odiati oppositori: che siano i credenti delle religioni confessionali o i cultori della New Age. In realtà le due fazioni (materialisti e credenti) rappresentano l’una per l’altra il rovescio della stessa medaglia o, come direbbe Jung, l’una l’Ombra dell’altra. Gli uni vivono di intuizioni ed emozioni, gli altri di astratta intelligenza. Gli uni presumono di poter interpretare il mondo e la vita trasgredendo le leggi materiali; gli altri, ignorando quelle metafisiche. Ognuna delle due fazioni combatte nell’altra quella parte di sé che non vuole o non è in grado di accogliere ed accettare. La verità invece, scomoda per entrambi, è che la scienza, ancorché riduzionistica, ha prodotto risultati straordinari e inimmaginabili ai suoi albori, mentre la ricerca spirituale, ancorché caotica e confusa, ha nutrito quella parte dell’umano che senza di essa si sarebbe disanimata.

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Volendo a questo punto riprendere il racconto del mio “viaggio interiore”, dirò che io invece ero sempre più intenzionato a continuare il cammino sul filo sottile teso sopra l’abisso che separava questi due estremi. Attraverso la pratica quotidiana del lavoro che facevo e l’assiduità delle mie letture mi appariva sempre più evidente che l’universo nel quale tutti viviamo era molto più misterioso, e in definitiva più magico, di quanto la coscienza ordinaria fosse portata a ritenere.
Solo alcuni esempi, fra i tanti che potrei citare:
- Un medico statunitense, Raymond Moody(23), casualmente si fa confidente di un suo paziente il quale, morto clinicamente per una qualche decina di secondi, e poi fortunosamente riportato in vita, gli racconta la propria esperienza di distacco dal corpo e il suo successivo viaggio e ritorno in una dimensione “Altra” da quella sensibile abituale. Anziché deridere il suo paziente o prenderlo per uno schizofrenico, Moody si chiede se anche altre persone abbiano mai vissuto simili esperienze di pre-morte… con discrezione inizia ad indagare, e alla fine porta alla luce centinaia di racconti similari, tenuti segreti dai loro protagonisti per paura di non essere creduti o di essere presi per pazzi. Il medico finirà per dedicare tutta la sua vita allo studio accurato del fenomeno e delle similitudini riscontrabili nella maggior parte dei racconti.
Per puro caso (ma esiste il caso?) mi capitò nei primi anni ‘90 una collaborazione clinica con il professor Antonino Aldo Sodaro(24) primario della divisione di Chirurgia Generale all’ospedale S. Pietro dei Fatebenefratelli, sulla via Cassia, a Roma. Durante la pur breve nostra collaborazione il prof. Sodaro ebbe modo di confidarmi di aver condotto anch’egli, sin dal 1986, proficue ricerche sull’EPM (esperienze di pre-morte) applicando un protocollo in grado di escludere con rigida obiettività qualunque causa organica potesse dar luogo a tali fenomeni. Purtroppo, l’imbarazzo della chiesa cattolica – che posta di fronte a delle possibili prove sulla natura spirituale delle sue pecorelle avrebbe visto minacciata la propria “pia missione” di conduttrice del gregge – “consigliò” il primario di interrompere le ricerche. Sempre per caso, e forse per simpatia, il prof. Sodaro volle consegnarmi gli articoli nati da questa sua appassionata ricerca. Articoli che oggi conservo con orgoglio nella mia libreria.
- Intorno agli anni ’80 gli psichiatri Donald Laing, David Cooper e Harry Stack Sullivan si rivoltano contro i parametri clinici della psichiatria accademica, sempre pronta a qualificare come “psicotica” qualunque esperienza interiore che si discostasse dallo standard della coscienza ordinaria, abusivamente ritenuta come l’unica sana e normale. Con un libro che farà la storia della moderna psichiatria, intitolato: “La politica dell’esperienza”, Laing(25) recupera il valore straordinario delle “rotture” occasionali e provvisorie degli stati ordinari di coscienza di alcuni suoi pazienti e di alcuni altri più famosi personaggi della nostra storia, comparandoli alle esperienze visionarie dei mistici e degli antichi sciamani. Pur con tutte le cautele del caso – suggerisce lo psichiatra -  in molte di queste vicende sarebbero riconoscibili i presupposti di travolgenti esperienze di andata e ritorno in un “Altrove” dove, per lo più, vivrebbero gli archetipi delle forme che sorreggono il mondo. Esperienze discutibili, questo è ovvio, ma comunque tali da risultare non solo auto-guaritrici bensì valorizzanti e arricchenti le personalità di coloro che le hanno vissute. Tra i personaggi storici citati da Laing successivamente, tanto per provocare l’ambiente della psichiatria ortodossa, Emmanuel Swedemborg (1688 1772), scienziato, inventore, medico, filosofo, del quale si dice parlasse 11 lingue, e che all’età di 56 anni inizia invece a “parlare” con gli Spiriti che gli riveleranno le modalità occulte della creazione del mondo.
- I990. Un altro psichiatra, canadese, Ian Stevenson(26) si lascia incuriosire dal fenomeno della reincarnazione. Redige un protocollo di ricerca rigidissimo e conduce per anni una ricerca sul campo alla fine della quale pubblica il celebre: “Reincarnazione. Venti casi a sostegno” Da ricercatore sobrio ed accurato non si lancerà in nessuna gratuita affermazione; si accontenterà di aprire un dialogo su una ipotesi che, in base alle prove raccolte, è più che attendibile.
-  Nel 1969 il fotografo del Nazional Geografic, Loren Mc Intyre(27), nel corso di una spedizione finalizzata alla ricerca delle sorgenti del Rio delle Amazzoni, si perde nella giungla e, per pura fortuna, viene raccolto da un gruppo di indios autoctoni che non avevano mai avuto contatto col mondo esterno. Lui non parla la loro lingua, loro non parlano la sua. Perciò non può farsi aiutare a tornare alla civiltà e, dopo un mese di permanenza nel misero villaggio, la sua situazione è disperata. Pur tuttavia Loren comincia ad essere raggiunto da messaggi telepatici chiari e netti inviatigli dal vecchio capo villaggio, e che lo aiutano a muoversi nell’ambiente.
- Come è possibile? – si domanda il fotografo, più allibito che realmente spaventato - E anche accettando la cosa, come può accadere che io riesca a comprendere con precisione i messaggi che il vecchio capo mi invia se alla base del nostro rapporto non c’è alcuna lingua comune?
Una fortuita, quanto selvaggia inondazione del Rio strapperà Loren da quella situazione e, pur rischiando di annegarlo, lo restituirà alla civiltà dalla quale proveniva.
Loren non farà alcuna pubblicità dell’esperienza se non molti anni dopo, più per dovere di cronaca che per cavalcarne la risonanza. Lo stesso identico comportamento che, nelle situazioni più diverse, molti altri testimoni di improvvisi squarci della realtà ordinaria hanno scelto di tenere. Ma che non toglie nulla alle esperienze in quanto tali né alla loro comprensione.

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Nel 1998 mi si offri l’occasione di specializzarmi in ipnosi clinica presso il CIICS (Centro Italiano di Ipnosi Clinica e Sperimentale) del quale era allora direttore il Prof. Franco Granone, primario di Neurologia all’Ospedale Generale Sant’Andrea di Vercelli.
In realtà dell’ipnosi come strumento di cura a me non interessava gran che. Ma degli stati alterati della coscienza, dei fenomeni che in essa possono manifestarsi e, soprattutto, delle sue implicazioni mi importava moltissimo. Superato il primo stupore, di fronte ai semplicissimi, ma pur sempre anomali fenomeni di catalessi, levitazione degli arti, totale rigidità corporea, profonde anestesie dell’organismo periferico e sonnambulismo, ebbi l’occasione di assistere a sedute dove si verificavano dei veri e propri stravolgimenti delle conoscenze mediche più accreditate: come la padronanza volontaria della funzionalità di muscoli involontari, la grafia ematica ( grazie alla quale con una diapedesi sanguigna cutanea il soggetto può scrivere sul proprio corpo intere frasi) e, infine, intensi ricordi di vite precedenti. Quello che a me interessava, tuttavia, non era indirizzato a usare questi fenomeni, sempre ripetibili per qualunque ipnotista, come prove a sostegno di chissà quale arcana realtà, bensì come osservazione dell’immenso, sconfinato potere dell’idea sulla materia. Sia come conferma delle ipotesi di Heisembrg – la forma che precede la sostanza – sia come relazione possibile tra mente, coscienza, materia e universo.
Lo studio dei fenomeni determinati dal placebo – che non ho mai capito perché non siano stati considerati fondamentali nella ricerca medica, anziché secondari e bizzarri – occupò un tempo considerevole dei miei studi in quel periodo. Ma lo sforzo maggiore, è innegabile, lo produssi studiando Charles T. Tart(28) e interessandomi delle sue ricerche sugli stati alterati della coscienza umana. Non poteva essere altrimenti: da alcuni anni, oltre a praticare un buon livello di alpinismo, avevo cominciato a volare in parapendio; e sempre leggendo o parlando con altri protagonisti di attività estreme avevo scoperto che queste creano una “condizione limite” nell’equilibrio delle istanze psichiche che sono responsabili di quello stato mentale che tutti noi chiamiamo coscienza ordinaria. Basta allora un nonnulla e può verificarsi il “salto quantico” da uno stato di coscienza ad un altro. Dall’altra parte, a seconda i casi, possono realizzarsi modificazioni della percezione spazio-temporale, fuoriuscita dal corpo, stati visionari, fenomeni di precognizione o di telepatia e altri ancora. Fenomeni, torno a ripetere, che solo una interpretazione gratuita, dogmatica e riduzionistica per antonomasia può liquidare come psicopatologie occasionali, evitando con ciò di interrogarsi sulla natura della Realtà Altra che in tutti questi casi si perviene a sperimentare.
Come che sia… con una raccolta delle testimonianze più disparate da parte di molte persone che avevano sperimentato tali fenomeni, e un breve, sintetico studio sui meccanismi di base che possono occasionarli, nel novembre del 2000 pubblicai il mio primo libro intitolato appunto “Attività estreme e stati alterati di coscienza”.
Frattanto l’arrampicata, che era sempre stata primaria fra i tanti interessi della mia vita, iniziò a scivolare in secondo piano, lasciando subentrare al suo posto i viaggi in 4x4. Ho raccontato in Maldafrica (il secondo dei libri da me pubblicato) come avvenne il passaggio e come, da vacanza-gioco-avventura, viaggiare in Africa si trasformò in una profonda esperienza conoscitiva. Seppur breve e sporadico, il contatto con i Tuareg prima e poi, via via, con i Dogon, i Peul, i Mauri, gli Hamer, i Mursi, i Borana, i Samburu, i Masai e gli Himba mi portò ad incontri ravvicinati con buona parte di quelle dinamiche psichiche che per tutta la vita avevo studiato. In Africa scoprii che gli archetipi, di cui avevo rintracciato solo fievoli tracce nella vita interiore dei miei pazienti, erano invece ancora vivi e vegeti; almeno tra le popolazioni che si erano arrestate all’inizio del proprio cammino evolutivo, e a tutti costoro ancora parlavano. Certo… i loro giorni erano contati. L’esportazione massiccia dei mali peggiori dell’occidente non avrebbe risparmiato neppure l’Africa e presto tutta quella meraviglia sarebbe svanita, perduta e dimenticata nelle pieghe del tempo che fu. Io però avevo avuto il privilegio di esserne stato testimone e di poter raccontare a chiunque avesse voluto ascoltarmi che un tempo, gli uomini, avevano commerciato con gli dei. Che il mondo è sempre stato magico e lo è ancora, anche se più non sembra. Che la natura ultima della Realtà è ancora tutta da scoprire e che la sua essenza è qui, sotto gli occhi di tutti – proprio come diceva Goethe – subito oltre la spessa coltre di grigiore sotto la quale l’intelletto astratto dell’uomo moderno occidentale - intelligente, colto e disincantato - l’ha voluta occultare.
L’universalità della ragione – accusa lucidamente Baget Bozzo(29) – la sua onniestensione e onnicomprensione ha ridotto il mondo ai limiti della ragione. Ciò che non può essere analizzato, misurato, posseduto è posto come non esistente: la ragione misurante il fenomeno diviene il giudice che distingue il reale dall’irreale, il senso dal non senso.
L’Africa, per mia fortuna, agli inizi del nuovo millennio, non si era ancora lasciata misurare né tanto meno interpretare. O almeno, non del tutto. L’Africa resisteva. Non so davvero come facesse, ma resisteva. Bastava esserci e, a meno di non chiudersi come un riccio, poteva accadere a chiunque di “ricordare” come dovette essere stata un tempo la relazione naturale e spontanea dell’uomo con il sacro che pervade il mondo. Senza rendermene davvero conto mi lasciai conquistare da questa dolce malia e, sempre nello stesso modo, semicosciente, iniziai a scrivere articoli e conferenze che confluirono poi, molto più tardi, in un tutto “quasi” organico: Maldafrica.
Continuavo però a leggere e studiare. Nella mia ricerca, volta a ricavare un immagine interiore sempre più aderente della Realtà del mondo, non mi sentivo giunto ad un punto tale da ritenermi del tutto soddisfatto. E così, ad un certo punto, incuriosito da alcune informazioni poco dettagliate che avevo trovato sulla concezione olografica dell’universo, cominciai ad interessarmene. Non ricordo bene come né perché, ma arrivai così ad un giovane neurochirurgo, Karl Pribram(30), che per anni aveva svolto vane ricerche sul cervello nel tentativo di localizzare gli engrammi della memoria. Il punto di svolta delle sue ricerche si realizzò quando, grazie alla collaborazione con il neuropsicologo Karl Lashley, Pribram ebbe la prova, sconcertante, che i ricordi non possedevano collocazioni specifiche nel cervello ma erano in qualche modo sparsi o distribuiti per tutto il cervello nel suo insieme. Mentre il giovane ricercatore si dibatteva nei suoi dubbi gli capitò tra le mani un articolo della Scientific American che descriveva la prima realizzazione di un ologramma. Per dirla con parole semplicissime un ologramma è un’immagine tridimensionale di un oggetto la cui riproduzione è stata fissata su una lastra per mezzo di schemi di “interferenza” (dove l’interferenza è la risultante dell’incontro-scontro di più onde di luce). L’immagine sulla pellicola non ha nulla di somigliante con l’oggetto originario, ma se un’altra sorgente di luce viene fatta passare attraverso la lastra, ecco riapparire l’immagine tridimensionale dell’oggetto originario. Ma la cosa davvero straordinaria è che, se tagliamo in due la lastra fotografica, su ognuna delle due metà rimane impressa l’immagine intera dell’oggetto originario. La stessa cosa accade se continuiamo a dimezzare le porzioni di lastra residue. Ciò in pratica significa che ogni più piccolo frammento di pellicola olografica mantiene registrata l’informazione completa dell’intero.
Forse ora si capirà perché Pribram rimase così colpito dalla scoperta: in pratica per tutta la sua vita da ricercatore egli elaborò e portò a buon fine centinaia di esperimenti volti a dimostrare la natura olografica del cervello, coinvolgendo nella sua opera di ricerca numerosi altri ricercatori entusiasti. Alla fine degli anni ‘70 egli aveva accumulato prove a sufficienza per convincerlo della correttezza delle sue teorie. Solo che, se queste avessero dovuto essere portate alle loro logiche conseguenze c’era la possibilità che la presunta realtà oggettiva del mondo – quella dei monti, dei fiumi o dei mari, delle città, delle automobili e delle tazzine da caffè – risultasse non esistere affatto o, almeno, non nel modo in cui lo avevamo sempre creduto. Possibile che i mistici indiani di tremila anni fa avessero ragione, che la realtà fosse una illusione di Maya e ciò che davvero esiste è una vasta rete di interferenze d’onda di cui anche noi, con la nostra coscienza, facciamo parte?
Pribram barcollava sotto l’urto delle proprie intuizioni – e io con lui, leggendo la sua storia, perché riconoscevo nelle sue ipotesi teoriche molti aspetti delle mie. Quello però che non avrei mai potuto nemmeno lontanamente immaginare fu che, ripercorrendo le sue ricerche – che lo portarono infine ad incontrare il fisico David Bohm(31) e a collaborare con lui – io stesso arrivai a fare la conoscenza con l’opera di questo gigante della conoscenza umana. Una conoscenza che, senza la mia curiosità per i lavori di Pribram, probabilmente non avrei mai fatto.
Mi sono chiesto a lungo come sia stata possibile, da parte mia, una tale ignoranza. Come sia stato possibile che per così tanto tempo, mentre mi arrampicavo sugli specchi di una materia (la meccanica quantistica) che non avrei mai potuto comprendere appieno, e incrociavo tra loro le ricerche e i pensieri di tanti ricercatori, io abbia potuto rimanere del tutto all’oscuro dell’opera straordinaria di un uomo che, con capacità intellettive infinitamente più grandi delle mie, si occupava dello stesso mistero. Ancora oggi me lo continuo a domandare e l’unica risposta che sento di dare è che, forse, per me, possa essere stato molto importante maturare un mio convincimento personale sulla Realtà della Realtà e, solo dopo, incontrare chi, sull’argomento, ne sapeva molto ma molto più di me. Forse, se avessi incontrato prima l’opera di Bhom, ne sarei rimasto soverchiato. Forse avrei smarrito quel senso di autonomia e originalità di pensiero che, oggi invece, sono parte integrante del mio essere, e avrei sempre potuto sospettare di essere stato condizionato o, almeno in parte, influenzato. Non so cos’altro pensare. Ma di sicuro so di aver incontrato in questi ultimissimi anni uno dei pensieri più soddisfacenti ed esaustivi che potessi mai sperare di incontrare. Non tanto per il contenuto in sé della visione del mondo proposta da Bhom – perché in fondo, con altre parole e con altri supporti epistemici, altri grandi pensatori mi avevano via via indicato la strada da percorre (da Jung a Steiner, da Scaligero a Granone) – quanto piuttosto per la attendibilità e la modernità del suo originale pensiero. Un pensiero che, purtroppo, non riuscirò mai a comprendere in tutte le sue implicazioni - vuoi per le abissali lacune della mia cultura matematica, vuoi per la incommensurabilità del genio di Bohm - ma al quale comunque sento affine il mio.
Sarebbe ingiusto a questo punto, e forse anche molto sciocco da parte mia, tentare di sintetizzare nelle poche righe consentitemi da questo mio “racconto di viaggio interiore” una delle teorie conoscitive che, sostenitori e oppositori, sono concordi nel ritenere tra le più eleganti, raffinate ed esaustive che l’intelligenza umana abbai mai potuto concepire. Solo per dovere di chiarezza, e non senza imbarazzo per la mia incompetenza, accennerò come la visione bohmiana sia scaturita dalla riformulazione della equazione di Schrödinger nella quale Bohm inserì un parametro – da lui identificato in seguito come “potenziale quantico” – che invalidava gli aspetti caotici, indeterminati o probabilistici della teoria quantistica classica, a favore di una concezione del tutto deterministica. La teoria si rinforzò grazie al successo del famoso esperimento EPR realizzato dal fisico Alain Aspect nel 1982, che dimostrò senza ombra di dubbio alcuno come due particelle subatomiche siano capaci di comunicare istantaneamente una con l’altra indipendentemente dalla distanza che le separa, che si tratti di 10 metri o 10 miliardi di chilometri. Su questa base, senza bisogno di mettere in discussione la teoria della relatività di Einstein, che fissa il limite della comunicazione “locale” (cioè nel tempo e nello spazio) nella velocità della luce, si poteva invece supporre che le particelle fossero in comunicazione continua, perché entrambe “immagini” provenienti da uno spazio non più locale, non più noto o, meglio, non esistente. Il motivo per cui le particelle subatomiche restano in contatto indipendentemente dalla distanza che le separa, nella teoria di Bohm risiederebbe nel fatto che la loro separazione è una illusione. Esse non sarebbero “parti” separate, bensì sfaccettature di una unità più profonda e basilare, che lo scienziato chiamò Ordine Implicato, per distinguerla da quel livello di Realtà Esplicata di cui la nostra coscienza ordinaria fa continuamente esperienza. L’universo che conosciamo si risolverebbe allora in una proiezione, una sorta di ologramma che sottende e rimanda ad un livello più profondo dove tutto sarebbe collegato a tutto, e ogni “cosa” sarebbe parte integrale e inseparabile di questo tutto.
Gli strati dell’Ordine Implicato possono scendere a livelli sempre più profondi e hanno tutte le caratteristiche di una intelligenza sublime, o cosmica, che Bohm definì appunto Apice Cosmico. Essa agirebbe attraverso il potenziale quantico (o campo informativo) il quale, come coscienza segreta della materia vivente e non vivente, “guida” le particelle più piccole che compongono la struttura dell’ordine esplicato. Di fatto, secondo Bohm, la mente cosmica agisce creativamente, ma deterministicamente, attraverso il mondo cristallizzato della realtà esplicata e, in questo modo, riflette se stessa. L’attività conoscitiva promossa dal pensiero umano non sarebbe pertanto né disgiunta né inessenziale al tutto, ma parte in causa diretta della creazione della realtà apparente nella quale è per il momento imprigionata. Pensiero e realtà, osservatore e oggetto osservato sono intimamente correlati anche se per comprendere a fondo tale loro correlazione bisognerebbe poter arrivare a quella purezza assoluta del pensare che Bohm mutua da Hegel, ma della quale avevano già parlato – come “Pensiero Forte”, ben distinto da quello sciacquettio ordinario con il quale di solito ci trastulliamo – i nostri Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Se il paradigma olografico propugnato da Pribram e da Bohm verrà ulteriormente confermato (come ad esempio già fanno supporre gli studi del fisico italiano Massimo Corbucci31), cosa rimarrà del sistema solare o del pianeta nel quale tutti viviamo, dei mari e dei monti, delle città, delle auto e dei motorini, dei gatti che camminano sui cornicioni dei tetti, della mosca che sbatte sul vetro, del letto sfatto, come della cena che si raffredda sul tavolo quando facciamo tardi a rientrare la sera? In pratica nulla. Tutto questo è un’illusione e “noi” non saremmo altro che “ricevitori” che fluttuano in un caleidoscopio di frequenze e che estraggono e creano da questo mare di informazione, secondo un canale di decodifica più o meno arbitrario, la realtà fisica di tutti i giorni. Su questa base lo psicologo ricercatore Keith Floyd – sfidando la consolidata concezione dualistica occidentale - ha sostenuto che non dovremmo più affermare che la mente crea la coscienza (cogito ergo sum). Al contrario, sarebbe la coscienza a creare l’illusoria immagine di un cervello, di un corpo o di un qualunque altro oggetto ci circondi e che noi interpretiamo come “fisico”.
E tuttavia, innegabilmente, la realtà materiale resta vincolante nella sua apparenza, costrittiva e dolorosa per la coscienza umana che la sperimenta come invalicabile. Una realtà coercitiva, oppressiva e limitante, gravida di conseguenze, ma che in nessun modo può essere ovviata o derogata se non attraverso una penetrazione conoscitiva che esigerebbe dall’uomo il ritrovamento del flusso originario del proprio pensare.
Come ho già scritto nella prima parte di questo stesso libro, un po’ scherzando e un po’ sul serio: Benvenuti su Matrix…
Al di là di queste divertenti provocazioni, resta però il fatto che se il modello olografico di Pribram e di Bohm (che, si badi bene, vuole essere solo una metafora descrittiva) verrà confermato troveranno finalmente una spiegazione unitaria e coerente tutti quei fenomeni che oggi, alla luce del riduzionismo materialistico, appaiono inspiegabili o sovrannaturali: dai fenomeni sincronici a quelli intrapsichici, come la precognizione, la telecinesi e la telepatia; dalle esperienze di pre-morte alle reminiscenze di altre vite; dai miracoli ai fenomeni estatici in alterazione di coscienza. Oltre a ciò, la rigorosa concezione di Bohm restituisce dignità e legittimità sia alle antiche visioni orientali, che interpretavano il mondo come “Grande Illusione” (Maya), sia alle speculazioni occidentali: come quella filosofica del “Mondo delle Idee” di Platone, quella artistica del “Regno delle Madri” di Göethe, e quella psicologica “dell’Inconscio Collettivo e dei suoi Archetipi” di Jung.
Quella di Bohm è una utopia conoscitiva? Non credo proprio, visto che nel momento in cui scrivo il fisico italiano Massimo Corbucci(32) dopo aver realizzato l’ordine di riempimento dei livelli atomici e in pratica aver riscritto la tavola degli elementi, sta ora contribuendo al rivoluzionario momento epocale della fisica grazie alla dimostrazione dell’esistenza del “Vuoto Quantomeccanico”. Una scoperta non da poco, sulla quale sembrerebbe che anche Peter Higgs, il “mostro sacro” della fisica contemporanea, stia ultimamente riflettendo.
Così come non credo siano solo ingenuità le nuove teorie proposte da Bruce H. Lipton32, una delle maggiori autorità mondiali nel campo della biologia cellulare. Teorie, le sue, che – attraverso un sincretismo tra biologia e fisica quantistica – dimostrano in maniera semplice e appassionata i meccanismi biologici cellulari attraverso i quali “ciò in cui crediamo determina ciò che siamo”.
Chiedendo comunque scusa ai miei lettori per la banale sintesi nella quale ho costretto sia la teoria di Bohm che quella di Lipton, invito i più intraprendenti a confrontarsi direttamente con le loro opere principali: “Universo, mente e materia” (Bohm) e “Biologia delle credenze” (Lipton). Oppure, per un approccio divulgativo, con i commentari dell’astro fisico Massimo Teodorani(33)  e con il buon libro di Michael Talbot(34): “Tutto è Uno”.

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Con la sintetica presentazione delle teorie di David Bohm e Bruce Lipton si conclude il racconto di questo mio lungo viaggio interiore. Non tanto perché io lo consideri finito ma, molto più semplicemente, perché sono arrivato a parlare di questi giorni, quelli in cui sto scrivendo, e non posso perciò sapere dove la strada che sto percorrendo ancora mi porterà. Posso solo sperare che “la mia Via - come raccomandava sempre Don Juan al suo discepolo Carlos Castaneda - possa sempre avere un cuore”. Fino ad ora l’ha avuto. Mi ha convinto che siamo tutti esseri spirituali inseriti in un complesso percorso evolutivo o, se si preferisce, in un gioco drammatico all’interno del quale siamo chiamati a partecipare alla natura di Dio, qualunque cosa questa parola possa significare. Mi ha insegnato a sforzarmi per cercare di essere, ogni giorno, migliore di quanto non fossi stato il giorno precedente. E, cosa non da poco, mi ha reso immensamente felice.
cosmoLa Realtà della Realtà, a cui tanto anelo, sembra sempre lì, appena un po’ più avanti del punto in cui il mio sforzarmi mi ha condotto. Alcune volte l’ho presagita, così intensamente, da ritenere che un nonnulla ancora mi sarebbe bastato per farne piena esperienza: la prima volta accadde che ero molto giovane - avrò avuto si e no 12 anni -  mentre ero sdraiato di notte su una spiaggia e guardavo le stelle. Il mio sguardo si perdette nell’infinito e io sentii – in un qualche modo ingenuo, ma con grande intensità - che eravamo tutti particelle infinitesimali di un unico Uomo Cosmico. La seconda volta mi accadde in montagna, quando avevo 33 anni, di fronte al rischio imminente di morire sul terzo pilastro della parete sud della Tofana di Rozes, in Dolomiti. E un’altra volta, invece, inspiegabilmente, mentre contemplavo l’orizzonte dalla cima di una modestissima montagna innevata che avevo raggiunto, in solitaria, per poi discenderla con gli sci. E mi è accaduto in Africa, mentre facevo l’amore con la mia donna durante un tramonto incanto sul lago Malawi. Molti adesso crederanno che questa mia ultima affermazione possa essere una concessione, elegiaca o romantica, alla relazione amorosa che mi lega alla mia attuale compagna di vita e di avventure. Ma non è così. La mia affermazione non voleva essere una metafora, bensì la testimonianza di una effettiva esperienza interiore, a riprova del fatto che la Realtà Ultima non è interdetta all’umano, e che chiunque volesse davvero conoscerla (e avesse il “lasciapassare” giusto) potrebbe indifferentemente afferrarla attraverso il pensiero, l’azione o il sentimento.

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1)  T. Tentori Antropologia Culturale Ed: Studium Roma 1971
2)  B. H.Levy La barbarie dal volto umano Ed. Marsilio Venezia 1977
3)  A.Glucksman La cuoca e il mangiauomini Ed. Erba Voglio Milano 1975
4)  I. Silone Uscita di sicurezza Longanesi Firenze 1965
5)  F. Gianfranceschi Il sistema della menzogna Rusconi Milano 1977
6)  A. Solzenicyn Arcipelago Gulag Mondatori Milano 1974
7)  A. Sakharov Il mio paese e il mondo Bompiani Bompiani 1975
8)  V. Maksimov Addio da nessun luogo Rusconi Milano 1974
9)  V. Bukovskij Il vento va e poi ritorna Feltrinelli Milano 1980
10) D. T. Suzuki Introduzione al buddismo zen Ubaldini Roma 1969
11) S.Aurobindo L’avventura della coscienza Galeati Imola 1968
12) P.Yogananda Autobiografia di uno yogi Ubaldini Roma 1971
13) Lao Tze Tao tê ching Mediterranee Roma 1972
14) A. Osborne Ramana Maharshi Ubaldini Roma 1976
15) M. Scaligero La logica contro l’uomo Tilopa Roma 1972
        “        “  Trattato del pensiero vivente Feriani Milano 1961
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17) E Neumann Il Sé, l’individuo, la realtà Marsilio Venezia 1980
18) F. Capra Il Tao della fisica Adelphi Milano 1982
19) R. Steiner Le opere scientifiche di Göethe F.lli Bocca Milano 1944
       “     “    La Filosofia della libertà Antroposofica Milano 1966
20) W. Heisemberg Fisica e filosofia Il Saggiatore Milano 1982
21)  P. Davies Dio e la nuova fisica Mondatori Milano 1984
22) E Soresi Effetto placebo in “Enciclopedia Medica” De Agostani Novara 1999
23) R. Moody La vita oltre la vita Mondatori Milano 1977
24) A. A. Sodaro Introduzione all’EPM (Articoli personali)
25) R. D. Laing La politica dell’esperienza Feltrinelli Milano 1971
26) I. Stevenson Reincarnazione: 20 casi a sostegno
27) P. Popescu Dove comincia il tempo Corbaccio Milano 1994
28) C. T. Tart Stati di coscienza Ubaldini Roma 1977
29) B. Bozzo Dio e l’occidente Mondatori Milano 1995
30) K. Pribram Languages of the Brain Wadsworth Monterey 1977
31) D. Bohm Universo, mente e materia RED Como 1996
32) M. Corbucci Alla scoperta della particella di Dio Macro Cesena 2006
33) B. Lipton Biologia delle credenze Macro Cesena 2009
34) M. Teodorani Bohm. La fisica dell’infinito Macro Cesena 2006
        “       “     Sincronicità Macro Cesena 2006
35) Michael Talbot  Tutto è Uno Urra Milano 1977

 

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aggiornata il 15-02-2013

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