Psicanalisi
   Ieri, oggi, domani…

di Piero Priorini

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Sono trascorsi più di cento anni da quando S.Freud elaborò e mise a punto quel sistema di cura delle malattie dell’anima, fondato sulla parola, che avrebbe condizionato e caratterizzato non solo la medicina bensì l’intera cultura dell’ultimo secolo della storia moderna. Da allora, infatti, medici, psicologi, ma anche sociologi, ricercatori, filosofi e intellettuali di varia estrazione non hanno più potuto prescindere dalla concezione psicanalitica per leggere e interpretare la realtà del mondo. E anche se l’originaria visione freudiana nel frattempo si è divisa, e ancora di nuovo suddivisa, in decine e decine di correnti autonome e separate, resta comunque il fatto che viene unanimemente riconosciuto alle dinamiche psichiche inconsce il potere di condizionare non solo la vita intima e privata del singolo individuo ma, attraverso di questi, anche quella degli altri.
Ma se la psicanalisi – pur nella genericità di un nome che comprende oramai visioni opposte e contrarie - continua ad essere un punto di riferimento teorico imprescindibile per qualunque interpretazione dell’umana avventura, che ne è invece della stessa come sistema di cura? Ha mantenuto quel potere di rimedio al male dell’anima che all’inizio aveva promesso?
“Cento anni di psicanalisi – scrive J.Hilmann in un suo celebre saggio su questo tema – e il mondo sta molto peggio di prima.”  Si! Certo, è innegabile…ma se l’uomo contemporaneo sta male la responsabilità va comunque divisa tra un sistema di cura che mostra i suoi limiti e un’infinità di variabili indipendenti storiche, sociali, politiche, economiche e spirituali che vanno comunque considerate parte in causa dell’attuale decadimento epocale. Perché se è vero che l’uomo è la misura della civiltà che va edificando, e poi anche vero che la civiltà ritorna sull’uomo, condizionandolo, plasmandolo e limitandolo in ogni sfumatura possibile.
Se chiudo gli occhi e ritorno alle persone che ho incontrato all’inizio della mia professione fino agli  anni ottanta e ancora novanta, li ricordo sì pressati dal disagio sintomatico, ma anche curiosi, attenti, impegnati ad un qualche livello esistenziale, responsabili verso se stessi e verso gli altri… Se penso invece all’umanità che è transitata nel mio studio in quest’ultimo decennio, la percepisco distratta da mille impegni e preoccupazioni, affannata, superficiale, irresponsabile verso se stessa e verso il mondo che abita. Il disagio (anche quello sintomatico) è aumentato a dismisura ma, aumentando, si è relativizzato divenendo quasi una condizione naturale, ovvia, ineliminabile dall’umana natura. Sia chiaro: non accuso nessuno in particolare. Piuttosto questa è l’immagine nevrotica dell’uomo che il mondo “trasmette” e che molti perciò assumono come l’unica possibile.
Ma lasciamo ad altri esperti analizzare l’alienazione sociale che si riversa sull’uomo, alienandolo, e chiediamoci invece: se è vero che cento anni di psicanalisi non hanno registrato grandi effetti, se è vero che troppo spesso la psicoterapia risulta vana, qual è il male della cura? Quale il suo limite?
Volendo azzardare una estrema sintesi direi che  il male della psicoterapia è lo psicoterapeuta!
O, più precisamente, la sua formazione.
Cercherò ora di argomentare questa mia “pesante” affermazione.
Quando la psicanalisi comparve, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, nonostante lo stesso Freud si fosse raccomandato di svincolarla dalla medicina, la “sudditanza reverenziale” dei primi operatori nei confronti delle scienze esatte non permise loro tale emancipazione.  Soprattutto i suoi più fedeli seguaci si sentirono in obbligo di ancorarla quanto più possibile al prestigio delle scienze esatte, e provenendo i più da una formazione medica, si sforzarono in tutti i modi di presentarla al mondo come la figlia legittima della biologia e della neurologia.
Nonostante il fatto che, con il trascorrere del tempo, molti filosofi della scienza la “facessero a pezzi” nelle sue pretese di oggettivazione (sostanzialmente perché non era falsificabile), e i più famosi didatti avvertissero invece che la psicanalisi come terapia dovesse essere intesa più come un arte che non come una scienza, non vennero lesinati sforzi per “dimostrarne” i presupposti scientifici. Questo rigore, tuttavia, non produsse altro che una serie continua di “rotture” e scissioni interne della teoria di base che, nel corso di un solo secolo, ha portato ad una proliferazione di correnti psicoterapiche le più disparate.
La verità, molto scomoda per la maggior parte degli esegeti, è che la psicanalisi non è una scienza esatta o, meglio, non solo. Piuttosto essa dovrebbe essere immaginata come un insieme armonico e fluido di scienza, arte e spiritualità.
Anzi… a dirla proprio tutta, la verità ancora più scomoda è che non esiste nessuna psicanalisi. Esistono solo tanti psicanalisti! Perché come sospettano in molti, ma nessuno osa affermare:
“Il terapeuta è la terapia. E la cura si fonda sull’Incontro”
Posso immaginare l’orrore evocato da questa mia affermazione e dalle sue molteplici, consequenziali implicazioni. Su di esse si potrebbe scrivere un vero e proprio trattato. Fra le tante, però, la più evidente è quella che emerse negli anni ’80 in Italia, quando si cominciò a parlare della necessità di statuire un albo degli psicoterapeuti. Fino ad allora, infatti, erano gli istituti privati che si erano fatti garanti della formazione dei loro terapeuti. Che fossero istituti freudiani, junghiani, reichiani o klaininiani, che facessero riferimento all’analisi bioenergetica, a quella transazionale, a quella cognitivo-comportamentale, all’ipnosi o alla logoterapia, erano loro che si assumevano la responsabilità diretta o indiretta di formare i propri operatori. Certo. E’vero che in questo modo non si poteva avere il “controllo dei controllori” e non si poteva perciò evitare che scuole poco blasonate o miranti a facili guadagni inflazionassero il “mercato della cura” con terapeuti di scarso valore. Per ovviare a ciò, tuttavia, sarebbe bastato educare ad una sana valutazione ed attenzione la coscienza collettiva. Invece si accampò l’alibi della difesa dei diritti del malato e si volle far credere che questi sarebbero stati tutelati proponendo una “formazione di Stato”. Ma la psicanalisi – come ho già detto – non è una scienza medica, bensì un arte basata sulla parola la quale, oltre ad una conoscenza approfondita di molti presupposti teorici (funzioni cognitive, psico-dinamica, meccanismi di difesa, tipologie caratteriali, nosografia e quant’altro) necessita, da parte del terapeuta, grande empatia, creatività e rettitudine morale. Per non parlare del suo equilibrio psicologico.
In sostanza, per far credere di eliminare qualunque arbitrio, l’arbitrio venne legalizzato. Oggi basta superare tutti gli esami previsti per il corso di laurea in psicologia e pagare la retta abnorme delle poche scuole di formazione terapeutica accreditate dallo stato per essere riconosciuti “terapeuti” a tutti gli effetti. In pratica è un business economico-cultrale quello che oggi si fa garante della bontà dei terapeuti a cui il pubblico si rivolgerà. Perché è difficile immaginare che una qualche scuola si faccia responsabile del rifiuto di un allievo (e del budget che esso rappresenta) solo perché ritenuto poco accogliente nei rapporti umani, scarsamente creativo o di dubbia morale.
Ricordo ancora bene i “tromboni” dell’epoca con quanta veemenza arrivarono a soffiare contro chiunque osasse appellarsi ai presupposti artistici ed etici della psicoterapia e, in nome di ciò, si opponesse al loro programma. Il risultato di questa ben diretta e congegnata campagna diffamatoria nei confronti dei liberi istituti di psicanalisi fu l’istituzione dell’Albo degli Psicoterapeuti, la cui unica vera funzione è quella di garantire alle scuole riconosciute il considerevole afflusso di denaro proveniente dalle tasche dei numerosi allievi.
Oh… lo so bene. Anche prima di allora operavano scuole di dubbia reputazione e la così detta “analisi selvaggia” era un pericolo reale nella cui rete molti pazienti male-accorti potevano andare a finire. Ma l’antidodo, come nella migliore tradizione medicamentosa, si è rivelato “iatrogeno”, molto peggiore, cioè, del male che pretendeva di curare. Solo le vecchie scuole private, infatti, muovendosi all’interno di una libera deontologia di riferimento, potevano permettersi il lusso di non garantire mai, a nessun allievo, il risultato del proprio training. Fino all’ultima ora, dell’ultimo dei sei anni di corso previsti per la vecchia formazione, infatti, la domanda di riconoscimento professionale poteva essere rifiutata, non tanto o non solo perché l’allievo mostrava di non possedere le conoscenze adeguate, ma perché inadeguata poteva risultare la sua empatia nei confronti degli altri, o perché troppo rigida e scarsamente creativa la struttura della sua personalità, o per mancanza, infine, di solidi presupposti morali. Tutte cose, queste, che oggi non sono più neanche lontanamente immaginabili.
Insomma, da un po’ di tempo ho la strana sensazione che si stesse meglio quando si stava peggio!
Oggi come oggi, aggirarsi tra le “bancarelle” del mercato della psicoterapia è diventato un passatempo che, se non fosse drammatico, potrebbe essere divertente.
Ce n’è per tutti i gusti: volete una psicoterapia politicizzata? C’è! Ne volete una riduttiva e materialista ad oltranza? C’è! O forse ne volete una impregnata di valori cattolici? C’è pure quella (alcuni preti e alcune suore, oggi, diventano psicoterapeuti e si rivolgono poi ai loro colleghi e ai loro fedeli). Ma forse ne preferite una orientaleggiante o comunque fondata sulle “energie” sottili? C’è… state tranquilli che c’è!
Forse è giusto così: siamo tanti e tutti così tanto diversi. Ognuno pretende di interpretare la realtà dal punto di vista nella quale la abita, disinteressandosi di andare poi a ricercare la matrice comune dalla quale tutte queste realtà discendono.
Forse va davvero bene così… ma non posso nascondere a me stesso il sospetto che, se non verranno rintracciati al più presto dei solidi parametri di riferimento comune, presto o tardi la diaspora psicoterapica produrrà una tale sfiducia nella coscienza collettiva da rischiare il suo riassorbimento nelle ben più accreditate psichiatria e neurologia. Con la gioia delle multinazionali farmaceutiche che ce la metteranno tutta per confermare al loro pubblico che:

E’ sempre meglio una pillola oggi che l’autocoscienza domani!

 

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aggiornata il 14-02-2013

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